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Ivan Graziani e la gioia di vivere di un mite dissacratore

Quando nell’ormai lontano 1977 ascoltai per la prima volta alla radio “Lugano addio”, ero ancora uno studente universitario, ventitreenne, prossimo a laurearsi in filosofia. Erano, quelli, anni di fervori, ideali e generosi, e furibondi furori ideologici: inquiete speranze e spettri maligni attraversavano il paese e l’Europa, in particolare l’animo dei giovani.

Su questo sfondo si levarono la voce e la chitarra di Ivan Graziani: entrambe uniche. Fui folgorato. Sapere, poi, che Ivan era abruzzese – come chi scrive questo suo ricordo –  gettava a priori in me un ponte di simpatia verso di lui. Ma soprattutto contavano la sua musica, la sua voce particolarissima, i suoi testi che ti arrivavano dentro, in profondità per la loro semplicità (in realtà: solo apparente…), per la loro intensità non ostentata, priva di quella supponenza che non raramente contaminava la produzione cantautorale di quegli anni, che pure in diversa misura e maniera apprezzavo (Guccini, De Andre’, Venditti, De Gregori… per Lucio Dalla, non catalogabile un po’ come Ivan, bisognerebbe fare un altro discorso… altro discorso ancora meriterebbe Lucio Battisti, idem Rino Gaetano…: però che periodo quello per le supposte “canzonette”…!).

Ivan, almeno nei brani più riusciti (e in pochi anni ne sfornò veramente di straordinari: “Lugano addio”, “Agnese”, “Firenze (canzone triste)”, “E sei così bella” per limitarsi ai più noti), creava un’atmosfera, direi un’aura, unica e inconfondibile dalla prima all’ultima parola e nota, rivelando una vena straordinariamente felice anche perché atipica. Certamente indimenticabili sono le figure femminili (qualche esempio? Franca, Marta, l’eroina nordica di Firenze da amare in due, Agnese, Anna innominata ma presente più di tutte, Paolina, Cleo, Angelina, Isabella, Susy, Minù, Dada e Ivette, Rosanna, Lucetta, Emily, Luisa, la ragazza di Blouson noir, Geraldine, la signora bionda dei ciliegi… e l’elenco per quanto numeroso è certamente incompleto): tutte cantate con amore, incanto e ammirazione se sincere e vere, anche nelle loro storie tristi, bizzarre o grottesche, e nella loro fisicità generosa.

Figure femminili inattuali nel loro fascino, quotidiano e al tempo stesso straordinario, non omologabile a cliché precostituiti più o meno à la page, né di allora né di oggi. Perché Ivan cercava a modo suo le cose autentiche: nella musica, nell’esistenza e nelle parole… con il suo incedere incerto, quasi claudicante, di chi pare che non prenda niente sul serio, nemmeno sé stesso, eppure ama come pochi la vita.

Tra gli altri, un aspetto merita una particolare attenzione: l’uso delle parole e delle immagini nei suoi testi. Con ogni probabilità, anche per la sua formazione e competenza di disegnatore, riusciva a fondere l’asciuttezza della poesia novecentesca con la narrativa della ballata rock, e senza timori riverenziali: in una sintesi di grande creatività linguistica ed efficacia di immagini, dirette ed essenziali e delineate con pochi tratti di penna. Un saggio di ciò si può riscontrare, appunto, in “Lugano addio”, nell’accostamento di due mondi lontani e diversi: quello del padre di Marta, a suo modo “epico”, e quello del papà del giovane meridionale innamorato di lei, fatto di sofferenza e solitudine: “Ed io pensavo a casa… mio padre fermo sulla spiaggia… le reti al sole… i pescherecci in alto mare… conchiglie e stelle, le bestemmie e il suo dolore”.

Il realismo di queste immagini, rapide quanto incisive, porta nel piccolo e “leggero” teatro di una canzone la vita antieroica ma vera e dura della provincia, non solo italiana, di quegli anni. Per analogia di contesto ed efficacia descrittiva, vengono alla mente due riferimenti: “la solita strada, bianca come il sale…  il grano da crescere, i campi da arare” di Luigi Tenco, e alcuni momenti e luoghi di vita di provincia descritti mirabilmente da Sandro Penna nelle sue poesie (treni e stazioni ferroviarie, interni di modeste abitazioni e angoli di città in cui poter ascoltare il rumore della vita…): e non mi sembra poco…

Per la creatività linguistica penserei all’aggettivo “quieta”, nella citata “E sei così bella”, del tutto infrequente anzi assente nelle canzoni d’amore, dalle più tradizionali alle più innovative, e che solo un funambolo della parola, come il cantastorie del Gran Sasso, partendo dall’aggettivo “bella”, poteva collegare per assonanza e parità di sillabe a “scema”. E, forse ancora di più, per il gusto dello slittamento di senso: portato spesso al “rovesciamento” di un termine di partenza fino allo ”scoronamento” – nei testi più ironici – di varie manifestazioni del potere o alla ridicolizzazione di atteggiamenti sessisti e machisti.

Aggiungerei – ma sono solo esempi tra tanti possibili… – l’espressione disarmante “fottuti di malinconia” in “Firenze (canzone triste)”  e la rima, nella splendida “Cleo”, “la strada è lunga da Torino a Salonicco… e in un’altra avventura io non mi ci ficco”: che certamente non è al livello dei “giornali che svolazzano… e i francesi che s’incazzano” di Paolo Conte – altro grande provinciale europeo – ma che è spiazzante e tutt’altro che banale, in una canzone peraltro straordinaria: se dovessi presentare a dei ragazzi la mitologia classica partirei da questo brano.

Così come se, riprendendo con piacere il mio antico mestiere di insegnante, dovessi spiegare a dei giovani il valore della scuola e della cultura, senza dubbio farei ascoltare “Monna Lisa”, soffermandomi sui seguenti versi: “La scuola è una gran cosa… soprattutto se ti insegnano ad amare… i capolavori del passato…” e se la cultura ti sorride.

Parlando del rapporto del cantautore con l’Abruzzo paterno, ma qualcosa si dovrebbe dire anche della Sardegna materna, vorrei ricordare la poco nota “Ninna nanna” in dialetto teramano, che trovo molto interessante e riuscita come uso non coloristico del dialetto, capace di sostenere o almeno innestarsi senza stridere su sonorità contemporanee. Singolare e suggestiva, anche se non facilmente dimostrabile, l’ipotesi avanzata da Ivan Graziani sulle origini del rock dal saltarello portato dagli emigranti abruzzesi negli U.S.A.: certamente, comunque, manifestazione di “devozione” alle proprie origini e alla tradizione musicale popolare. Da non dimenticare, inoltre, la canzone dedicata al Gran Sasso: presentato come muto testimone nel tempo delle piccole e grandi vicissitudini umane.

Certamente Ivan, grazie al suo rapporto simbiotico con la chitarra, credo si possa tranquillamente ritenere – anche se non sono un addetto ai lavori –  nei suoi anni uno dei più grandi chitarristi non solo italiani: basti pensare alla varietà di sequenze ritmiche incalzanti, ai fraseggi, agli attacchi e ai finali che restano puntualmente impressi. Gli attacchi di “Monna Lisa”, “Agnese” (al netto della polemica di plagio con Phil Collins), “E sei così bella”, “Fuoco sulla collina”, “Taglia la testa al gallo” (… ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo): sono esemplari e sorprendenti per originalità e varietà, virtuosismo d’esecuzione ed efficacia nel creare il terreno musicale su cui inserire parole per temi spesso sorprendenti e tutt’altro che banali.

Proprio come una “palla di gomma” musicale, il chitarrista abruzzese canta e racconta sogni adolescenziali, la vita e le donne di cui è innamorato o affascinato, scorona (cioè toglie la corona) l’ipocrisia, rovescia situazioni “normali” svelandone l’assurdità o la falsità, guarda dal basso “i padreterni” del potere o chi sta sopra scoprendone le vergogne, rimanendo sempre disposto ad apprezzare bizzarrie, stranezze e limiti umani purché manifestazioni di quell’autenticità cara al “bambino antico” radicato nel suo cuore.

A questo proposito risultano molto significativi nella formazione della persona e dell’artista teramano il mestiere di fotografo del padre e l’esperienza vissuta da bambino o ragazzino quando lo accompagnava ai matrimoni e alle cerimonie nelle quali il papà prestava il suo servizio: si parla più o meno della metà degli anni cinquanta. Cioè di anni nei quali l’Abruzzo, soprattutto contadino, presentava ancora diffusamente il suo volto ancestrale e si sentivano ancora e non poco gli effetti della guerra.

Quel mondo ha fornito le prime immagini, il primo campionario umano da osservare e in cui riconoscersi, in occasioni nelle quali le famiglie, anche le più umili, spendevano molto di quel poco che avevano per fare festa in giorni degni di essere ricordati… ed Ivan era lì, bambino o ragazzino sicuramente curioso e ricettivo. Probabilmente già da allora ha iniziato a formarsi in lui l’attenzione per la varietà dell’umano e, grazie all’osservazione del lavoro del padre spesso poi ricordato, quella predisposizione ad attraversare diverse forme d’arte e di espressione.

Su questa base si costituirà nel tempo, quella che è una delle sue caratteristiche più singolari e importanti: cioè la capacità di comporre e suonare operando un transfert straordinariamente efficace tra linguaggi  tecniche e temi diversi, con uno speciale riscontro nelle parole delle sue canzoni.

Ivan Graziani, giullare della vita, anche per questa sua capacità mimetica era un artista tra i più completi della sua generazione, cólto ma non “poeta laureato” (per dirla con Montale): cólto di quella “cultura che – appunto – sorride”, che è capace di unire alto e basso, aristocratico e popolare, e che non ammette boria, sfoggio ed ostentazione di sé, anche perché non si basa su verità astratte a cui genuflettersi o a cui immolarsi, ma sulla “verità” concreta, incarnata della vita che, benché imperfetta e contraddittoria, merita di essere vissuta.

E non si può dire che Ivan non l’abbia vissuta fino in fondo, bevendola tutta sorso a sorso, liquori inquinati compresi, in un arco di tempo purtroppo precocemente ed inesorabilmente rastremato.

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