È il 1996 ed Apple, oggi famosa in tutto il mondo per essere la madre di prodotti portatori di uno status symbol, si trova sull’orlo del fallimento. Scelte sbagliate, linee di prodotti portate avanti senza un piano ben preciso e l’incapacità di creare per il computer di punta dell’azienda, il Mac, un sistema operativo in grado di rivaleggiare con Windows 95 di Microsoft creano incertezze su come possa salvarsi da una discesa nel dimenticatoio che sembra ormai imminente.
Uno dei due fondatori e uomo simbolo di Apple negli anni ‘80, Steve Jobs, ha abbandonato da una decina d’anni, a malincuore, la sua nave. Nonostante le nuove avventure nel settore dell’hi-tech tra cui il progetto NeXT, pensato prima come personal workstation e poi riciclato come sistema operativo per uso accademico, ed il successo che aveva travolto lui e la Pixar, soprattutto dopo l’uscita di Toy Story nel 1995, il suo pensiero era in parte rimasto sempre rivolta all’altro lato della mela. Jobs si era dimesso nel 1985 dopo un braccio di ferro col CEO ed ex amico John Sculley che successivamente aveva assunto le redini dell’azienda a pieno titolo. A Sculley si possono attribuire molte dichiarazioni che sembrano andare contro non solo a quella che è la linea progettuale attuale dei prodotti Apple, ma addirittura ai suoi valori come:
“La Apple non sarà mai un’azienda che produce beni di consumo… Non potevamo piegare la realtà ai nostri sogni di cambiare il mondo… L’alta tecnologia non può essere progettata e venduta come bene di consumo”.
Parole indicative di una mancanza di visione ad ampio raggio non solo sul futuro dell’azienda, ma in generale della tecnologia che proprio tra la fine del XX secolo ed i primi anni 2000 vedrà un salto in avanti repentino per quel che riguarda la digitalizzazione della società.
Lo stesso Steve Jobs vide nelle parole di Sculley un indice di corruzione valoriale in Apple che ora era in mano a “gente interessata a far soldi soprattutto per sé”, e a ben vedere, mistificazioni linguistiche a parte, l’azienda era riuscita a sopravvivere solo grazia alla rendita, almeno finché il mercato non aveva richiesto dei cambiamenti repentini in termini di accessibilità.
Tornato alla base, prima come consulente esterno del consiglio di amministrazione poi come vero e CEO, Steve Jobs partì dalla convinzione di base che per salvare Apple bisognava cestinare i prodotti ormai “senza fascino” e produrre qualcosa di nuovo. L’identità di questo qualcosa di nuovo gli fu suggerita dall’amico ed ex membro del CdA di Apple Mike Markkula. Jobs gli chiese se secondo lui esisteva una formula per costruire un’azienda che durasse nel tempo e Markkula rispose:
“Devi reinventare l’azienda e farle produrre qualcosa di nuovo, come altri prodotti ed elettrodomestici di consumo. Devi essere come una farfalla e attraversare una fase di metamorfosi”.
Reciproca interazione gravitazionale
Mentre Steve Jobs lasciava Apple, l’altro ragazzo prodigio dell’informatica, Bill Gates, prosperava insieme alla sua Microsoft. Nonostante siano ad oggi considerati due istituzioni nel campo del progresso tecnologico, Jobs e Gates non potevano essere più diversi dal lato caratteriale e umano. Carismatico ed intuitivo il primo, metodico e calmo il secondo. Ai loro caratteri corrispondevano anche due diverse tipologie di leadership. Steve Jobs da perfezionista esigeva moltissimo dai suoi dipendenti ed era conosciuto per i suoi scatti d’ira così come per la disorganizzata intensità con cui portava avanti i suoi progetti. Bill Gates invece preferiva pianificare ogni sua mossa, teneva incontri di verifica del prodotto a scadenze regolari e arrivava al punto delle questioni con una sicurezza lapidaria. Jobs si perdeva nei suoi sogni ad occhi aperti nella misura in cui Gates ispirava sicurezza e solidità d’intenti. Un esempio pratico di confronto tra le due mentalità da leader è sicuramente la “battaglia dell’interfaccia”. Nei primi anni ’80 Apple e Microsoft avevano stretto un accordo per realizzare delle versioni di Word ed Excel in esclusiva per il primo Macintosh da non rivendere ad altre aziende esterne, come ad esempio l’IBM, prima del lancio ufficiale del PC. Jobs sospettava che la collaborazione potesse portare Microsoft ad ispirarsi alla loro interfaccia grafica per creare a loro volta un sistema operativo basato su questo principio. Cosa che effettivamente avvenne nel 1983, quando Bill Gates annunciò alla stampa che avevano in progetto di realizzare un’interfaccia grafica con finestre, icone e mouse per navigazione punta e clicca di nome Windows. Gates venne successivamente invitato in California per discutere della faccenda. Ne seguì uno scontro in cui Jobs perse la calma, urlando ed accusando il suo interlocutore di derubarlo. Bill Gates, mantenendo la calma per tutto il tempo, riuscì però a spuntarla:
“Nel corso della riunione era stato (Steve Jobs) veramente uno stronzo. Poi ci fu un momento in cui quasi si mise a piangere […] Ci so fare quando gli altri si lasciano trascinare dalle emozioni. Io sono meno emotivo”.
Nonostante le sostanziali differenze di personalità tra i due, da quel momento in poi si creò un legame che li porterà anni dopo a sviluppare una sorta d’intesa e, almeno da parte di Gates, un risentito rispetto.
Un posto migliore
Durante il Macworld del 1997 un non ancora CEO di Apple a pieno titolo, Steve Jobs fece proiettare dietro di sé un collegamento con Bill Gates per ringraziarlo del suo aiuto. Microsoft aveva infatti deciso di investire 150 milioni di dollari in Apple in azioni senza diritto di voto. Compreso nel pacchetto c’era l’impegno dell’azienda di Seattle a sviluppare un pacchetto Office per il sistema operativo del Mac che avrebbe avuto come browser predefinito Internet Explorer. La folla che inizialmente era stata attraversata da diversi malumori, si calmò quando capì l’importanza dell’evento in sé, un vero e proprio salvagente per Apple. Come disse Steve Jobs nei suoi ringraziamenti:
“Bill, grazie per il sostegno che stai offrendo a questa azienda. Penso che il mondo sarà un posto migliore grazie a questo”
Il mondo migliore prefigurato da Jobs era un mondo in cui probabilmente Microsoft non avrebbe avuto più il quasi monopolio del mercato. Uno dei motivi che spinse Gates ad accettare il patto con Apple fu infatti la causa antitrust che il Dipartimento di Giustizia, sotto l’amministrazione Clinton, stava preparando contro Microsoft. Una delle prime cose che Jobs fece per risollevare la situazione fu invitare a casa sua il procuratore a capo dell’inchiesta Joel Klein, chiedendogli di tenere impegnata Microsoft quanto più possibile con la causa, permettendo così ad Apple di fare un balzo in avanti e riportare effettivamente più equilibrio nel mercato. Successivamente, dopo l’uscita di scena dell’ex CEO Apple Gil D’Amelio, una delle prime telefonate di Jobs fu proprio a Bill Gates. Egli cercò di portarlo dalla sua in virtù anche dell’astiosa stima che li legava.
Gates, che inizialmente aveva addirittura negato lo sviluppo dei software di Office per la nuova linea di PC Apple, al ritorno definitivo del rivale cambiò rotta. Misero insieme l’accordo nelle quattro settimane che precedevano il Macworld, ma i punti in sospeso vennero risolti a poche ore dall’inizio dell’evento in una conversazione privata tra Steve Jobs e Bill Gates. Apple ce l’aveva fatta, era sopravvissuta e non grazie a chissà quale formula magica, ma ad una serie di circostanze favorevoli che permisero al padre ideologico (e il pacchetto valoriale che egli portava con sé) di tornare lì dove tutto era iniziato e misero la principale compagnia tech del periodo ben disposta nei suoi confronti. Una risoluzione basata più su morale, intuito e tempismo che sulla lungimiranza.
Articolo realizzato da Chiara Pericolo, studentessa YLab for social and digital innovation
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